I tre errori di Trump che mettono a rischio l’ordine globale

 la Caporetto della politica internazionale americana.

Tutto avremmo pensato, ma non che l’atlantismo, che ha impostato l’ordine mondiale per decenni, venisse sostituito dal tafazzismo, che, per chi non avesse confidenza con questo neologismo, significa avere un comportamento assurdamente e inutilmente masochistico. Eppure, è quello che Donald Trump ha fatto fino a questo momento con la sua politica internazionale, scardinando organismi multilaterali e istituzioni che, a livello teorico, dovevano bilanciare gli appetiti e le varie ambizioni crescenti, sostituendo un approccio bilaterale approssimativo, dove le potenze si parlano fra loro, partendo dal presupposto che alcune siano più potenze di altre. E già questo è sconfessare i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Ma abbiamo visto come al tycoon regole e statuti piacciano poco e come si trovi più a suo agio con autocratici che con regimi democratici. Il punto vero, quello più drammatico e preoccupante, è che questa amministrazione Usa non ha capito con chi debba parlare e chi invece tenere in secondo piano. Si è notato, in tutta la sua evidenza, in questo mese di agosto, appena concluso, che potrebbe essere definito, senza tema di smentita, la Caporetto della politica internazionale americana.

Trump ha accolto con tutti gli onori in Alaska Vladimir Putin, il leader di un Paese il cui Pil è inferiore a quello italiano. Una nazione a capacità nucleare, ma in grave deficit demografico e tecnologico. Estesa territorialmente, ma non grande nel senso geopolitico del termine. Ma sarebbe andato bene persino questo, se, dall’altra parte, Trump non avesse trattato nazioni come l’India alla stregua di una comparsa.

In primo luogo, perché si tratta del colosso asiatico del futuro. Rappresenta la quinta economia mondiale e un mercato immenso per tecnologia, energia, infrastrutture e investimenti americani, che potevano essere sviluppati con la stabilità delle rotte energetiche e l’innovazione tecnologica, in particolare le energie rinnovabili. In secondo luogo, almeno fino a qualche mese fa, New Delhi, che Washington considera una democrazia, anche se le derive autoritarie del suo premier, Narendra Modi, sono sempre più evidenti, rappresentava anche un contrappeso ideologico a Pechino. Poi sono arrivate le sanzioni per via dell’import di greggio russo, che contenevano implicitamente un ultimatum: New Delhi doveva scegliere se stare con l’Occidente o con il nuovo ordine globale a trazione cinese.

L’ultimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che si è tenuto in Cina, sembra dire che Modi abbia deciso di stare con quella cordata di Paesi che vede negli Usa un attore sempre più opprimente o che comunque non debba più necessariamente essere considerato indispensabile.

Il mondo sta cambiando, era un processo difficile da invertire. L’India non avrebbe mai sposato la causa atlantista in modo netto e permanente, ma avere un peso massimo nel mezzo e non a sbilanciare gli equilibri, sarebbe già stato importante. Ad averlo capito. E così il presidente Trump, con la sua politica, ha esacerbato e accelerato il cambiamento. Prima ha restituito a Putin una dignità e un peso internazionale che, dopo oltre tre anni di isolamento, pensava non avrebbe mai ritrovato. In secondo luogo, era davvero convinto di strappare lo ‘zar’ all’influenza cinese, ignorando che Pechino tiene in piedi l’economia di intere regioni del cosiddetto ‘estremo oriente russo’. Succede, quando non si studiano i fascicoli che professionisti della diplomazia preparano con precisione e dedizione. Infine, il terzo errore: quello di regalare l’India che, con il Brasile, rappresentava l’area più moderata dei BRICS, ai disegni ideologici di Pechino.

La situazione è grave ed è seria, soprattutto in presenza di un’Unione Europea incapace di una politica estera comune e destinata a subire le decisioni e gli errori di entrambe le parti.

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